Ritratti del desiderio

Ritratti del desiderio
di Massimo Recalcati
(Raffaello Cortina – 2012)
reca

L’esperienza del desiderio è infatti un’esperienza di perdita di padronanza, di vertigine, di qualcosa che si dà a me stesso come “più forte” della mia volontà. Il desiderio in quanto forza che mi supera non è qualcosa che “io” posso governare, non è a mia disposizione, a disposizione del mio Io, ma è piuttosto l’esperienza di uno scivolamento, di un inciampo, di uno sbandamento, di una perdita di padronanza, di una caduta dell’Io.

In questo senso Lacan pensava che la vera malattia mentale, la follia più grande dell’uomo, fosse quella di “credersi un Io”. È questa la vera malattia mentale che affligge l’umano. La vera malattia mentale, il “sintomo umano per eccellenza”, dichiara provocatoriamente Lacan, è credersi un Io, è la fede cieca – l’attaccamento – nei confronti di quell’Io che crediamo di essere. È la protervia e la prepotenza della credenza nell’Io. L’esperienza del desiderio (inconscio) scalfisce e indebolisce proprio questa credenza perché rivela che qualcosa (ça) desidera, dunque esiste, spinge, tende a emergere, al di là dell’Io. Io sono preso, portato, posseduto, animato, invaso, percorso dal desiderio.

  • Primo ritratto – Il desiderio invidioso

La prima manifestazione del desiderio tende ad assumere una conformazione che incontriamo frequentemente nel mondo dei bambini: il desiderio infantile si manifesta strutturalmente come desiderio dell’oggetto desiderato dall’altro bambino.

  • Secondo ritratto – Il desiderio dell’Altro

La scena adesso non è più occupata dal volto sfigurato di un bambino trafitto dal tarlo passionale della gelosia, non ha al centro il suo “sguardo torvo” e risentito. Il secondo ritratto ha invece il volto di un padre. È questo il ritratto della dimensione simbolica del desiderio. Mentre il desiderio invidioso è, come abbiamo visto, catturato dallo specchio, prigioniero dell’incantesimo di un oggetto il cui valore dipende dal suo essere posseduto dall’Altro, impaludato nelle sabbie mobili di una rivalità sterile e infruttuosa, il desiderio come desiderio dell’Altro manifesta il desiderio come apertura, come legame positivo, come domanda rivolta verso l’Altro.

La struttura simbolica del riconoscimento implica che il desiderio sia desiderio dell’Altro desiderio, desiderio del desiderio dell’Altro, dunque non desiderio di qualcosa, ma desiderio del suo desiderio, desiderio di essere desiderato dall’Altro. È la grande lezione della Fenomenologia dello spirito di Hegel ripresa da Lacan attraverso la mediazione di Kojève.

Il secondo ritratto del desiderio ci porta di fronte a una domanda fondamentale: cosa significa per la realtà umana desiderare? Il ritratto del padre ci conduce a rispondere a questa domanda affermando che desiderare significa volersi sentire desiderati, voler essere riconosciuti dall’Altro, significa voler avere un valore per l’Altro.

È l’insegnamento drammatico dell’anoressia: il rifiuto di soddisfare il bisogno è animato dall’esigenza di essere riconosciuti dall’Altro (familiare o sociale) come soggetti di desiderio e non come corpi da sfamare. Il rifiuto dell’oggetto, il rifiuto ostinato del cibo, è in realtà una domanda di riconoscimento rivolta all’Altro: “Non voglio essere per te solo un sacco che puoi riempire di cose, non voglio essere per te solo un tubo digerente! Voglio essere ciò che ti manca e non ciò di cui disponi arbitrariamente, voglio essere l’oggetto del tuo amore e non delle tue cure!”

Questa domanda impellente di riconoscimento accompagna la vita umana come tale. Per questa ragione Lacan descrive il “fantasma primario del bambino” come sostenuto da una declinazione radicale di questa stessa domanda. Cosa intende con l’espressione “fantasma primario del bambino”? Intende definire la preoccupazione originaria dell’essere umano di avere un posto presso i suoi genitori, presso sua madre o suo padre, presso il suo Altro. Il fantasma primario del bambino esprime la preoccupazione originaria della vita umana di avere un posto nell’Altro, di avere un valore per l’Altro, di essere ospitata dal desiderio dell’Altro, di non esistere senza senso. Lacan sintetizza in una frase questo fantasma: “Puoi perdermi?”. Il fantasma primario avanza una domanda radicale sul desiderio dell’Altro: Puoi vivere senza di me? Puoi vivere senza avvertire la mia mancanza? Puoi esistere senza la mia esistenza? Se scomparissi, se morissi, se non esistessi più per te, la tua vita sarebbe la stessa, sarebbe uguale, il mondo stesso sarebbe davvero lo stesso?
In ogni domanda d’amore ritroviamo le stimmate di questo fantasma originario del bambino.

Un vecchio studio di René Spitz sugli orfanotrofi di Londra dopo la seconda guerra mondiale aveva evidenziato a suo modo questa eccentricità del campo del desiderio rispetto a quello dei bisogni. Bambini accuditi con solerzia da infermiere particolarmente efficienti si lasciavano inspiegabilmente morire d’inedia o di anoressia, sviluppando gravi sintomi depressivi. Sindrome di “deprivazione primaria” l’aveva battezzata Spitz. Che cosa gettava nel marasma e nella derelizione questi bambini? Di cosa mancavano se le cure dei loro bisogni primari venivano ampiamente soddisfatte? Mancava loro la presenza dell’Altro dell’amore, l’ossigeno del desiderio dell’Altro, il dono della presenza dell’Altro come dono che trascende la dimensione anonima e protocollare delle cure, mancava loro il segno d’amore. Lo studio di Spitz sulla deprivazione primaria dimostra l’eccentricità del desiderio come desiderio dell’Altro alla dimensione naturale del soddisfacimento dei bisogni: i bambini si lasciano morire o sprofondano nella depressione perché non sopportano la privazione del segno d’amore, l’assenza della presenza presente dell’Altro dell’amore, non sopportano di non aver ricevuto il dono della parola.

Di fronte allo specchio non abbiamo esperienza piena del riconoscimento perché in primo piano è la nostra immagine di fronte a se stessa. C’è chi resta incatenato tutta la vita alla magia seduttiva dello specchio, c’è chi non esce più dal suo regno incantato e malefico. Questo imprigionamento può oscillare dal normale narcisismo sino alla paranoia. Resta il fatto che allo specchio non c’è dialettica simbolica del desiderio, ma solo il miraggio di un Io ideale che ipnotizza il soggetto.

Per questa ragione nella parola del Padre che sa riconoscere il figlio, che sa compiere la sua adozione simbolica, è già da sempre implicito il lutto per la sua stessa perdita. La parola del Padre deve sapere accogliere da sempre la sua morte perché, come già aveva indicato Hegel, essa si compie solo nell’essere oltrepassata da quella del figlio. Nella dialettica del riconoscimento tra padre e figlio, non ci deve essere nel Padre alcuna domanda di preservare il figlio come un suo clone, come la ripetizione di se stesso.

  • Terzo ritratto – Il desiderio e l’angoscia

Chiediamocelo bene: che cosa scatena l’angoscia? La sensazione di essere in balìa del desiderio dell’Altro, di essere ridotti a un oggetto nelle mani del capriccio dell’Altro, di essere l’oggetto inerme del godimento senza limiti e insaziabile dell’Altro.

Mentre il desiderio come desiderio dell’Altro dava luogo alla dialettica del riconoscimento contemplando la possibilità di una soddisfazione simbolica (sentirsi riconosciuto dall’Altro), in questo ritratto terrificante siamo invece inchiodati nella posizione di oggetto impotente del desiderio dell’Altro.

Che vuoi?” è, secondo Lacan, la forma interrogativa che assume questo stato di sospensione al quale l’umano è consegnato di fronte al desiderio dell’Altro. Cosa vuole da me e chi sono io per lui? L’essere umano sorge sullo sfondo di questa interrogazione angosciata. Siamo tutti appesi alla volontà indecifrabile dell’Altro.

  • Quarto ritratto – Il desiderio di niente

Il desiderio umano non è solo desiderio dell’Altro, non è solo ciò che si appaga simbolicamente nel desiderio dell’Altro, nel sentirsi riconosciuto, voluto, desiderato dall’Altro, ma è anche desiderio d’Altro, desiderio che sospinge al di là di ogni possibile oggetto, al di là di ogni possibile soddisfazione, compresa quella simbolica del riconoscimento. Il Don Giovanni si presta a incarnare questa fuga perpetua e inquieta del desiderio: nessuna è mai abbastanza. L’umano è travolto dalla forza del desiderio come desiderio di niente. I poeti e gli scrittori hanno cantato spesso questa dimensione diabolica e perennemente insoddisfatta del desiderio.

Il desiderio sospinge da un oggetto a un altro senza pace. In questo consiste il suo carattere metonimico. E in questo spostamento la soddisfazione, sempre attesa, deve poter essere continuamente differita. La mancanza di cui è fatta l’esistenza umana – la mancanza da cui il desiderio sorge (si desidera sempre quello che non si ha, quello che manca) – non si deve mai estinguere. Se la “mancanza a essere” di cui è fatta la stoffa del soggetto umano è il motore del desiderio come desiderio di niente – che giustamente Lacan definisce come una “metonimia della mancanza a essere” –, il discorso del capitalista genera sempre nuove pseudomancanze che alimentano questa metonimia in uno scorrimento tanto infinito quanto inconcludente.

  • Quinto ritratto – Il desiderio di godere

In questi casi, l’oggetto del desiderio non emerge tanto come qualcosa di irraggiungibile o di evanescente, com’era nel caso del terzo ritratto, quello del desiderio come desiderio di niente, ma come un oggetto di godimento che provoca un piacere in eccesso, sempre sull’orlo del dispiacere. Prendiamo come un esempio evidente l’abbuffata bulimica. In questo caso in primo piano è un eccesso di godimento che non procura un semplice piacere ma tende a dissipare la vita, a farle male, a travolgerla. In questo caso nel desiderio di godere l’oggetto del desiderio si rivelerebbe non solo irraggiungibile, ma innanzitutto nocivo, maligno, maledetto per la vita.

Se insistiamo nel seguire Lacan su questa via, sulla via del salmone con maionese, sulla via del desiderio come dispendio inutile, incontreremo la sagoma inquietante del “godimento” (jouissance), che è una figura decisiva del suo insegnamento. Il desiderio non vuole solo soddisfarsi nel segno d’amore, nel desiderio dell’Altro, nella dialettica del riconoscimento, ma vuole innanzitutto godere. Di fronte al ritratto del mendicante che mangia salmone con maionese ci troviamo nel punto dove le acque del desiderio e quelle del godimento sembrano mescolarsi.

Questo attaccamento al Male resta inspiegabile se non si introduce ciò che Freud chiamava “pulsione di morte”, cioè qualcosa che porta l’essere umano al di là del principio di conservazione della sua vita e che Lacan rinomina con la figura del “godimento”. Si tratta di una sorta di intemperanza febbrile, di un’attrazione verso l’eccesso, di un rifiuto dell’equilibrio e della moderazione del piacere. L’essere umano non è un essere aristotelico, non si accontenta della via mediana, non è un “animale razionale” ma, come afferma Lacan, un “essere di godimento”, un essere che tende a oltrepassare il limite, a preferire il godimento alla difesa della propria vita. L’ideale del Bene non è ciò che orienta la vita umana.

(Freud) La sua pratica di psicoanalista lo aveva sospinto verso qualcosa di assai più osceno e scabroso della scoperta della sessualità infantile: i pazienti non vogliono guarire, mostrano un attaccamento inquietante alla loro sofferenza, abbracciano languidamente proprio ciò che li rende schiavi, adorano ciò che fa loro male!

  • Sesto ritratto – Il desiderio dell’Altrove

Questo sesto ritratto del desiderio trova la sua immagine in un corpo genuflesso e immerso nella preghiera. Il desiderio di cui parliamo ora è il desiderio dell’Altrove. Questo desiderio manifesta la condizione umana come esposta a una insufficienza radicale. L’esistenza non è infatti padrona della sua origine, non può “insignorirsi del suo fondamento”, come affermava Heidegger in Essere e tempo;32 non è un ens causa sui, non è il luogo di una autosufficienza. Questo ennesimo ritratto del desiderio verte tutto sulla nostra insufficienza ed è per questo che è il ritratto di una preghiera.

  • Settimo ritratto – Il desiderio sessuale

Nel mondo umano non incontriamo il desiderio sessuale sulla via delle leggi della natura ma, come suggerisce Lacan, sulla via dei collage surrealisti. Nel desiderio sessuale le cose non rispondono con certezza al grande Altro della Natura, ma a montaggi bizzarri, particolari, antiuniversali, refrattari ed eccedenti i meccanismi istintuali. Il piede e la scarpa possono diventare la meta o la condizione imprescindibile affinché vi sia desiderio sessuale; possono diventare una meta assai più bramata e desiderata dell’organo genitale o dello stesso accoppiamento. Freud parlava a questo proposito di una predisposizione “perversa polimorfa” della sessualità umana totalmente irriducibile agli schematismi della ragione naturale che ispira l’istinto sessuale del mondo animale. C’è qualcosa di bizzarro, di astruso, di estremamente plastico nel desiderio sessuale, salvo la volontà di godimento che lo anima. Questo significa che i modi della sua realizzazione sono assolutamente particolari e refrattari a ogni schematismo istintuale. Piuttosto che realista il desiderio sessuale, come diceva lo stesso Lacan, appare francamente surrealista. L’immaginazione erotica degli umani è variegatissima. Non esiste un modo di impiego “naturale” del desiderio sessuale, ma solo infinite possibilità di montaggi e di scenari attraverso i quali il desiderio sessuale svela l’assenza di un sapere istintuale certo, capace di dirigerlo infallibilmente alla sua meta.

  • Ottavo ritratto – il desiderio amoroso

Il desiderio sessuale non implica il segno del riconoscimento, il segno d’amore, ma la presenza del corpo dell’Altro, del corpo pulsionale, o, come dice Lacan stesso, almeno una parte del corpo dell’Altro, un suo “divino dettaglio”. Il “desiderio sessuale”, come il “desiderio di niente”, non si soddisfa nell’ascolto della parola, non trova il suo appagamento nella risposta simbolica alla domanda di riconoscimento, ma resta ostinatamente fissato sui dettagli del corpo, dunque non solo sulle scarpe e sui piedi, o sulla scarpa-piede o sul piede-scarpa di cui ci parla Magritte, ma su pezzi, frammenti, ritagli del corpo, nel senso che il desiderio sessuale si soddisfa, permettetemi di dirlo così, attraverso una scarpa o un piede, dunque un tratto, un frammento, un pezzo di corpo.

  • Nono ritratto – il desiderio puro o il desiderio di morte

La storia di Antigone può essere ricapitolata mettendo a fuoco il suo dilemma fondamentale, ovvero quello di dover decidere tra la Legge del suo cuore che gli impone di dare sepoltura a Polinice – il fratello morto in battaglia – perché il suo corpo sia preservato dallo scempio dell’esposizione pubblica, perché non diventi carogna, carne esposta al vento, ma trovi riposo nel conforto simbolico dell’urna, e la Legge della città, incarnata dal re Creonte, che stabilisce che i traditori della patria (tale era Polinice) non hanno diritto al rito della sepoltura. Ecco il primo dilemma con il quale Antigone si confronta: obbedire alle Leggi della città oppure seguire la Legge del cuore che implicherebbe fatalmente la disobbedienza alle Leggi della città. Tra le due leggi non esiste infatti per Antigone alcuna mediazione, nessun accordo possibile. La Legge singolare del cuore è rigidamente contrapposta a quella universale della città. In questo dilemma Antigone è sola. La sua scelta scaturisce da una decisione che non trova alcuna sponda nell’Altro, ma che è come un salto nel vuoto.

  • Decimo ritratto – Il desiderio dell’analista

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