Lettere a Theo

Lettere a Theo
di VINCENT VAN GOGH
[1872-90]
(Ed. Guanda – 2013)
theo

Notizie sulla vita e le opere di Van Gogh

[1890]… Vincent esprime a Theo dubbi sulla sua utilità, ritenendolo più malato di nervi di quanto non lo sia egli stesso. Dipinge il Campo di grano con corvi e, il 14 luglio, festa nazionale francese, Il municipio di Auvers. Il 27, uscito nel pomeriggio per lavorare, rincasa la sera dicendo ai coniugi Ravoux di essersi sparato una revolverata (l’arma non verrà mai ritrovata). Accorre il dottor Gachet, che provvede a medicarlo e a informare dell’accaduto Theo, che giunge il mattino dopo, accolto da Vincent con le seguenti parole: «L’ho fatto per il bene di tutti, ho mancato il colpo ancora una volta».
La sera, Theo scrive alla moglie: «È stato molto contento che sia venuto e siamo sempre insieme… Poveretto, ha avuto ben poca felicità e non gli sono rimaste illusioni. La sua croce si fa molto pesante, a volte; e si sente tanto solo. Chiede spesso di te e del bambino». Il 29 luglio, poco dopo l’una di notte, Vincent muore, dopo aver trascorso l’intera giornata seduto sul letto a fumare la pipa. «La tristezza durerà comunque tutta la vita. Ora desidererei ritornare» dice a Theo prima di spirare. Il mattino seguente giungono da Parigi e da altre località otto amici, tra i quali Dries Bonger, Lucien Pissarro (figlio del pittore), Bernard e papà Tanguy, che ricoprono con i suoi quadri le pareti della stanza in cui è stata posta la salma. ll dottor Gachet porta un grosso mazzo di girasoli. Il 30, sotto un sole implacabile, si svolgono i funerali, con qualche difficoltà dovuta al fatto che il prete cattolico di Auvers si rifiuta di benedire la salma e di fornire il carro funebre perché il defunto è un suicida. Il carro viene messo a disposizione da un comune vicino.

LETTERE

Meglio pronunciare poche parole che abbiano un vero significato che non molti suoni oziosi, inutili quanto facili.

Se dovessi pensare di essere di peso o di ostacolo a te o alla famiglia, se dovessi rendermi conto della mia assoluta inutilità, sentendomi intruso e proscritto tanto da capire che la mia morte sarebbe una liberazione per tutti ed essere costretto ad appartarmi sempre più da tutti – se così fosse veramente, sarei preso da una profonda angoscia e dovrei lottare contro la disperazione. È un pensiero che non riesco quasi a sopportare, e ancor più insopportabile è il pensiero che tanta discordia e tanta sofferenza tra noi e nella nostra casa possano esser causate da me. Se dovessi esserne certo, mi augurerei di non aver molto da vivere.

È come la muta per gli uccelli, il tempo in cui cambiano le piume; per noi uomini corrisponde al periodo di avversità e di disgrazia, ai tempi difficili. In questo tempo di muta ci si può fermare, ma se ne può anche uscire come rinnovati, ma comunque sono cose che non si fanno in pubblico, non sono affatto divertenti, è per questo che bisogna eclissarsi.

Ma qual è il tuo scopo ultimo? dirai tu; esso si definirà, si delineerà lentamente e sicuramente, come l’abbozzo diventa schizzo e lo schizzo quadro, man mano che ci si lavora seriamente, che si approfondisce la prima vaga idea, il primo pensiero fuggitivo e passeggero, a meno che non diventi un’idea fissa.

Dio mio, come è bello Shakespeare! Chi è misterioso al pari di lui? La sua parola e il suo modo di agire raggiungono la potenza di un pennello fremente di febbre e di emozione.

Be’, cosa vuoi, quello che uno ha dentro traspare anche al di fuori. Uno ha un grande fuoco nel suo cuore e nessuno viene mai a scaldarcisi vicino, e i passanti non vedono che un poco di fumo in cima al camino, e poi se ne vanno per la loro strada.

…il fannullone per forza, che è roso intimamente da un grande desiderio d’azione, che non fa nulla perché è nell’impossibilità di fare qualcosa, perché gli manca ciò che gli è necessario per produrre, perché è come in una prigione, chiuso in qualche cosa, perché la fatalità delle circostanze lo ha ridotto a tal punto; non sempre uno sa quello che potrebbe fare, ma lo sente d’istinto: eppure sono buono a qualcosa, sento in me una ragione d’essere! so che potrei essere un uomo completamente diverso! A cosa potrei essere utile, a cosa potrei servire? C’è qualcosa in me, che è dunque? Questo è un tipo tutto diverso di fannullone, se vuoi puoi considerarmi tale
Un uccello chiuso in gabbia in primavera sa perfettamente che c’è qualcosa per cui egli è adatto, sa benissimo che c’è qualcosa da fare, ma che non può fare; che cosa è? non se lo ricorda bene, ha delle idee vaghe e dice a se stesso: «Gli altri fanno il nido e i loro piccoli e allevano la covata», e batte la testa contro le sbarre della gabbia. E la gabbia rimane chiusa, e lui è pazzo di dolore.

Non si sa sempre riconoscere che cosa è che ti rinchiude, che ti mura vivo, che sembra sotterrarti, eppure si sentono non so quali sbarre, quali muri. Tutto ciò è fantasia, immaginazione? Non credo, e poi uno si chiede: «Mio Dio, durerà molto, durerà sempre, durerà per l’eternità?».

Non aspiro a diventare qualcuno di «straordinario»; mi basta essere «ordinario» nel senso che il mio lavoro sia ragionevolmente buono, che abbia il diritto di esistere e che possa servire a uno scopo.

Ho appeso alle pareti tutti i miei studi e tu dovresti rimandarmi quelli che hai, poiché potrebbero servirmi. Forse non saranno vendibili, e sono pronto a riconoscere tutti i loro difetti; ma c’è in essi qualcosa di «vero», perché sono stati fatti con un certo sentimento.
Come sai, ora sto lavorando sodo ad alcuni acquerelli: se riusciranno bene, penso di poterli vendere.

…dopo un certo tempo, fui in grado di mandarti un disegno a crayon e carboncino, e ritornai da Mauve con molti di questi disegni. Naturalmente, egli vi trovò molti difetti, come li trovasti anche tu; ma comunque avevo fatto un passo avanti.

In Une page d’amour di Émile Zola ho trovato dei quadri della città superbamente dipinti o disegnati, proprio nello stato d’animo di quelle semplici frasi della tua lettera. E quel libriccino mi spinge a leggere tutto di Zola; fino ad oggi non conoscevo che pochi brevi frammenti delle sue opere, che cercai di illustrare – Ce que je veux e un altro brano in cui descrive un vecchio contadino, esattamente come un disegno di Millet.

Mio caro Theo,
ho pensato a Gauguin, ed ecco, se Gauguin vuol venire qui, c’è il viaggio di Gauguin e ci sono i due letti o i due materassi, che in questo caso dobbiamo assolutamente acquistare.
Ma dopo, siccome Gauguin è marinaio, è probabile che arriveremo a farci il mangiare da noi.
E con lo stesso denaro che spendo per me solo, vivremo in due.
Sai che mi è sempre sembrato idiota che i pittori vivano soli, ecc. Si perde sempre quando si sta isolati.
E poi è una soluzione al tuo desiderio di tirarlo via di lì.
Non puoi mandare di che vivere a lui in Bretagna e a me in Provenza. Ma puoi trovare conveniente che si divida fra di noi, e fissare una somma diciamo di 250 franchi al mese, e inoltre e al di fuori del mio lavoro avere un quadro di Gauguin.

Ma che vuoi, è una cosa disgraziatamente complicata per molte ragioni, i miei quadri non hanno valore, e mi costano invece delle spese straordinarie, talvolta anche di sangue e di cervello.

Mio caro fratello,
mi è sembrato sentire nella tua cara lettera una tale angoscia fraterna trattenuta, che mi sembra mio dovere rompere il silenzio. Ti scrivo in piena presenza di spirito e non come un pazzo, ma come il fratello che ti vuol bene. Eccoti dunque la verità. Un certo numero di persone di qui hanno indirizzato al sindaco (credo che si chiami signor Tardieu) una petizione (c’erano più ottanta firme) che mi definiva persona non adatta a vivere in libertà, o una cosa del genere.
Il commissario di polizia o il commissario centrale hanno dato perciò l’ordine di internarmi di nuovo.
Eccomi quindi qui per lunghi giorni sotto chiavi e chiavistelli e guardiani in cella, senza che sia provata e neppure provabile la mia colpa.

Mi stanno tormentando che ho fumato, bevuto, e va bene, ma cosa vuoi, con tutta la loro sobrietà non fanno che causarmi nuove miserie. Caro fratello, il meglio che possiamo fare è di beffarci delle nostre piccole miserie, e anche un poco di quelle grandi della vita umana. Prendi la tua decisione e cammina dritto al tuo scopo. Nella società attuale noi artisti siamo l’anfora rotta. Come vorrei poterti mandare i miei quadri, ma sono sotto chiave, chiavistelli, polizia e infermieri del manicomio. Non andarmeli a sbloccare, tutto andrà a posto da sé, comunque avverti Signac che non si immischi prima che io gli scriva di nuovo, perché metterebbe le mani in un ginepraio. Col cuore ti stringo la mano con tanta cordialità, saluta la tua fidanzata, la mamma e la sorella.

Naturalmente è stato un duro colpo per me: ho veramente fatto del mio meglio per essere amico con tutti, e non me lo aspettavo. A presto, mio caro fratello, spero; non inquietarti. Forse sarà una specie di quarantena che mi fanno passare, chi lo sa?

[Auvers-sur-Oise, 27 luglio 1890]
È l’ultima, incompiuta lettera, che venne trovata addosso a Van Gogh dopo la sua morte.

Mio caro fratello,
grazie della tua cara lettera e del biglietto di 50 fr. che conteneva. Vorrei scriverti a proposito di tante cose, ma ne sento l’inutilità. Spero che avrai trovato quei signori ben disposti nei tuoi riguardi.
Che tu mi rassicuri sulla tranquillità della tua vita familiare non valeva la pena; credo di aver visto il lato buono come il suo rovescio – e del resto sono d’accordo che tirar su un marmocchio in un appartamento al quarto piano è una grossa schiavitù sia per te che per Jo. Poiché va tutto bene, che è ciò che conta, perché dovrei insistere su cose di minima importanza. In fede mia, prima che ci sia la possibilità di chiacchierare di affari a mente più serena passerà molto tempo. Ecco l’unica cosa che in questo momento ti posso dire, e questo da parte mia l’ho constatato con un certo spavento e non l’ho ancora superato. Ma per ora non c’è altro. Gli altri pittori, checché ne pensino, si tengono istintivamente lontani dalle discussioni sul commercio attuale.
E poi è vero, noi possiamo far parlare solo i nostri quadri.
Eppure, mio caro fratello, c’è questo che ti ho sempre detto e che ti ripeto ancora una volta con tutta la serietà che può provenire da un pensiero costantemente teso a cercare di fare il meglio possibile, te lo ripeto ancora che ti ho sempre considerato qualcosa di più di un semplice mercante di Corot, e che tu per mezzo mio hai partecipato alla produzione stessa di alcuni quadri, che, pur nel fallimento totale, conservano la loro serenità. Perché siamo a questo punto, e questo è tutto o per lo meno la cosa principale che io possa dirti in un momento di crisi relativa. In un momento in cui le cose fra i mercanti di quadri di artisti morti e di artisti vivi sono molto tese.
Ebbene, nel mio lavoro ci rischio la vita e la mia ragione vi si è consumata per metà – e va bene – ma tu non sei fra i mercanti di uomini, per quanto ne sappia, e puoi prendere la tua decisione, mi sembra, comportandoti realmente con umanità. Ma che cosa vuoi mai?


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