Del capello e del fango

Del capello e del fango
Riflessioni sul cinema
di Alain Badiou
(Ed. Pellegrini – 2009)
cape

Daniele Dottorini
ALAIN BADIOU O IL CINEMA COME PROMESSA FILOSOFICA

Il dibattito si sviluppa allora lungo binari molteplici, dalla critica radicale di ogni effettiva o potenziale ontologia del cinema (da Bazin a Deleuze) di autori come Noël Carroll o i neowittgensteiniani Malcolm Turvey e Richard Allen, al recupero del cinema quale dispositivo di rielaborazione concettuale dell’immagine e della sua storia in Didi-Huberman, alla visione “sintomale” dell’immagine cinematografica nella cartografia critica della cultura di Slavoj Žižek, fino al ripensamento concettuale del rapporto filosofia/cinema in filosofi come Jacques Rancière e Alain Badiou.

Il 1993 è, da questo punto di vista, un anno centrale per Badiou. È il momento, infatti, in cui il filosofo francese fonda, insieme al critico e regista Denis Lévy, la rivista bimestrale “L’art du cinéma”. Rivista cartacea e portale internet

Nella prospettiva aperta da Badiou a partire da L’essere e l’evento, si diceva, la filosofia non si pone come discorso fondatore della realtà (essa non coincide con l’ontologia), ma circola (potremmo dire, circola liberamente) tra le sue condizioni, nello spazio aperto dal rapporto tra ciò che è, l’essere-in-quanto-essere e ciò che avviene, l’evento puro. Tale rapporto non indica due modalità dell’essere, né attesta l’essere come Uno, ma, al contrario, ribadisce il suo essere immediatamente molteplice. La molteplicità dell’essere, il suo non-essere-uno deriva proprio dal carattere eventuale del divenire. L’evento infatti è uno dei concetti centrali di Badiou, concetto che determina l’emergere del nuovo nella realtà.

Deleuze si è occupato di letteratura, di teatro, di cinema, di pittura, ha lavorato incrociando lo sguardo di autori come Spinoza e Sacher-Masoch, Carmelo Bene e Whitehead, Melville e Jean-Luc Godard, Francis Bacon e Marcel Proust; la sua filosofia parte cioè dal presupposto che il pensiero scaturisca da un impulso esterno, qualcosa che emerge da fuori e con un atto scardinante, avvia un processo di pensiero, costringendo a pensare. È un gesto radicale, che non può essere metodico.

Una doppia origine, prima poetica (i presocratici, Empedocle, Eraclito, Parmenide) e, in seguito argomentativo-razionale, con Socrate e con Platone. La doppia origine della filosofia si riflette continuamente lungo tutta la storia del pensiero: «la filosofia è dunque impura, una sorta di bastardo che appartiene a due famiglie diverse». Questo doppio modello filosofico – poetico e matematico – si riflette nel procedere stesso del pensiero, nella distinzione (fondamentale per Badiou, come si è detto), tra essere e evento, tra ciò che è e ciò che avviene. La matematica è di fatto il modello puro del ragionamento astratto («le matematiche sono l’ontologia», afferma la tesi principale de L’essere e l’evento), ma per riuscire a pensare l’evento, ciò che avviene ed è radicalmente nuovo, non comparabile ad altro, occorre un linguaggio diverso, nuovo. Ed è qui che l’arte interviene, come possibilità di pensiero dell’evento, un pensiero che ha modalità e procedimenti propri, come la matematica d’altronde.
La filosofia si configura pertanto come tensione tra arte e matematica, gioco concettuale che non aderisce a nessuno dei due ordini del discorso, ma che crea un rapporto, necessario e pregnante. È questa la sua forza e anche il suo paradosso, la sua impurità.

Il discorso di Badiou si smarca allora dalla prospettiva puramente estetica (che di fatto ha condizionato profondamente il rapporto cinema-filosofia). Il cinema, con la sua forza scardinante di arte/non-arte, di dispositivo elitario e di massa, di costruttore di immagini di avanguardia e riproduttore di clichè, con la sua capacità di immergersi nel caos e nell’impurità del mondo, traendone, con la sola forza della ripresa e del montaggio – il cinema non è che questo, afferma Badiou – dei momenti di purezza assoluta, di pura arte; ebbene il cinema che fa tutto questo ha offerto nel Novecento uno straordinario strumento filosofico, ha dato al mondo la possibilità di vedersi e di pensarsi in altro modo, come, appunto, nuova sintesi

Nell’argomentazione il filosofo francese presenta tre coppie di opposti: la contrapposizione tra Callicle e Socrate nel dialogo Gorgia, l’uccisione di Archimede da parte del soldato romano, infuriato perché il matematico siracusano preferisce continuare i suoi calcoli anziché recarsi dal generale Marcello, e la coppia di amanti de Gli amanti crocifissi di Mizoguchi Kenji. In tutte e tre le opposizioni c’è qualcosa di radicalmente irriducibile.

Accostare insieme le tre opposizioni incommensurabili significa per Badiou compiere un’operazione che è di fatto una sintesi, un’operazione squisitamente filosofica: riprendendo l’esempio de Gli amanti crocifissiforse il più bel film d’amore che sia mai stato fatto»)

Il cinema, più che un’arte si configura in queste pagine come un territorio in più, in cui le quattro procedure generiche di verità (scientifico/matematica, politica, artistica ed amorosa) trovano il loro spazio, si incrociano, si ibridano e si offrono al discorso filosofico nel libero gioco che ne costituisce il loro processo più proprio.

…nel proporsi come arte impura esso non è “solo” arte, né semplice intrattenimento, ma ibrida e impura presentazione di uno sguardo molteplice sul mondo: «Se il cinema è idea, o visitazione casuale dell’idea, lo è nel senso in cui il vecchio Parmenide, in Platone, la esige dal giovane Socrate: che ammetta, insieme al Bene, al Giusto, al Vero, al Bello, alcune idee altrettanto ideali, per quanto meno convenienti: quella del Capello o del Fango»

La domanda che scorre nelle pagine che seguono non si riconduce all’interrogativo “Che cos’è il cinema?”, ma introduce l’idea del cinema come forma produttiva, capace di costruire degli effetti di pensiero. Il cinema non è “sintomo” della contemporaneità (come spesso in Žižek), né costituisce una forma particolare di elaborazione dell’immagine (come nella prospettiva aperta da Didi-Huberman). Al contrario, il cinema si muove in un territorio ampio e frastagliato, oscillante tra la volgarità e il sublime, e, proprio per questo, capace di suscitare emozioni, sensazioni e pensiero, cioè una scrittura.
La scrittura, dunque, per concludere. Essa si muove lungo i binari della critica e della teoria; essa procede “come se” facesse critica e/o teoria del cinema, ma facendo, al tempo stesso, filosofia, semplicemente perché quello che è in gioco nel nostro rapporto con il cinema è, come Badiou non smette di ripetere, la possibilità di cogliere nel modo suo proprio, una verità.

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PARTE PRIMA

  • I. ARTE, MATEMATICA E FILOSOFIA

La filosofia ha in realtà una doppia origine, e credo che non s’insista a sufficienza su questo punto. La filosofia non è nata in modo semplice: come tanti altri mostri, è nata due volte. È nata una prima volta con tutti quelli che chiamiamo presocratici: Parmenide, Eraclito, Empedocle. Ma tutti loro erano dei poeti, dunque la filosofia è nata la prima volta nella poesia.

La seconda nascita è invece la critica radicale di questo punto e comporta un’idea completamente diversa: l’idea che la verità di ciò che viene detto non deve dipendere da colui che parla, la parola della verità non è parola sacra, bensì parola che deve essere provata, ricorrendo a prove che chiunque può e deve condividere. Questo è il conflitto che viene a crearsi sin dall’inizio tra poeta e filosofo; e si tratta di un conflitto molto profondo perché riguarda l’origine stessa della verità.

  • II. IL CINEMA COME ESPERIENZA FILOSOFICA

Il cinema trasforma la filosofia, ovvero, il cinema trasforma la nozione stessa di Idea. In fondo, il cinema è creazione di nuove Idee su ciò che è un’Idea. Ed è appunto su questo che vorrei discutere con voi. Si potrebbe dire altrimenti dicendo che il cinema è una situazione filosofica. E vorrei cominciare spiegandovi cos’è una situazione filosofica. Astrattamente, una situazione filosofica è la relazione tra termini che non intrattengono alcuna relazione. Una situazione filosofica è dunque un incontro tra termini estranei l’un l’altro.

Orbene, il cinema si definisce come un paradosso e per questo motivo è una situazione per la filosofia. Si può definire questo paradosso in due modi diversi: il primo di questi modi, e il più filosofico, consiste nel dire che il cinema è un rapporto singolare tra il più totale artificio e la realtà più totale. Il cinema è, al contempo, la possibilità di una copia di questa realtà e la dimensione completamente artificiale di questa copia. Il che equivale a dire che il cinema è un paradosso, che si muove attorno alla questione dei rapporti tra “essere” e “apparire”. È un’arte ontologica. Questo è stato oramai detto da molti critici, in particolare dal grande critico francese André Bazin, il quale mostrò molto presto che la questione del cinema, il problema del cinema, è in realtà il problema dell’“essere”. Il problema di ciò che viene mostrato quando si mostra, è la prima ragione per la quale esiste qualcosa come una questione – o un problema – del cinema.

La constatazione è che il cinema è arte di massa. Vi darò una definizione di “arte di massa”, una definizione molto semplice. L’arte diviene di massa quando le opere d’arte, grandiose opere d’arte, incontestabili, vengono viste e amate da milioni di persone nel momento stesso della loro creazione

I film di Chaplin sono stati visti dappertutto, addirittura gli eschimesi li hanno visti. E tutti hanno immediatamente capito che i suoi film parlavano dell’umanità

Ma c’è ne sono altri, che non appartengono al cinema comico, burlesque o sentimentale; per esempio un film straordinariamente concentrato, innovativo e che ancora oggi è uno dei più grandi poemi cinematografici di tutti i tempi: parlo di Aurora di Murnau

In questo senso, nell’espressione “arte di massa” c’è un rapporto paradossale tra un elemento democratico puro e un elemento aristocratico storico. Tutte le arti sono state arti d’avanguardia. La pittura è stata arte d’avanguardia fino a quando è arrivata nei musei. Ora è possibile ammirare i “Picasso” come tesori.

Vediamo la questione a partire dal tempo. Sapete che questa era la questione fondamentale per Deleuze, ma anche per tanti altri studiosi del cinema. E si potrebbe dire che il cinema è arte di massa perché trasforma il tempo in percezione, rende visibile il tempo. Il cinema è, in fondo, tempo che si può vedere, e grazie a ciò crea un’emozione del tempo, che è differente dal vissuto del tempo.

C’è una definizione molto antica della filosofia che riguarda ciò che abbiamo poc’anzi detto: la filosofia è il pensiero delle rotture, o il pensiero dei rapporti che non sono rapporti. Lo si può dire altrimenti: la filosofia produce sintesi, inventa una sintesi quando la sintesi non è data; o, se lo preferite, la filosofia crea una nuova sintesi laddove c’è rottura.

…una straordinaria formula del grande scrittore Samuel Beckett, che mi è sempre sembrata una formula filosofica. La si trova nel romanzo Com’è. In questo testo l’umanità viene rappresentata un po’ come nell’Inferno dantesco. La gente si trascina al buio con le proprie sacche, ed essere umani significa di fatto questo. Vale a dire che l’esperienza è ridotta. Cosa può succedere? Può succedere al massimo che si vada a sbattere al buio contro qualcuno; questo è l’unica cosa che può succedere. Ma è anche straordinario, perché in fondo l’unica cosa che può capitare è un incontro.

L’eroe, Lawrence Olivier, confesserà un crimine, con quella passione straordinaria per la confessione che Hitchcock possiede, visto che le sue preferenze vanno verso i colpevoli, e, soprattutto, visto che preferisce dire che siamo tutti colpevoli e prova piacere quando qualcuno racconta il suo crimine. L’elemento soggettivo più raffinato di Hitchcock sta nel fatto che l’innocente è più colpevole del colpevole

Rossellini ci dice che l’amore è più forte della volontà, e che quando voi fate uno sforzo per salvare la vostra coppia, questo è soltanto un’astrazione, perché in realtà qualcosa della coppia deve salvarsi da sé. Come se l’amore fosse qualcosa di nuovo, non qualcosa che può essere barattato. In fondo, Rossellini ci dice che l’amore non è un contratto, bensì un evento. Dunque, se mai potrà essere salvato, sarà salvato da un evento. Nella sequenza finale del film [Viaggio in Italia] viene girato il miracolo, non vi racconto i dettagli, dovete vederlo

[Morte a Venezia] Non si tratta soltanto di belle immagini di Venezia, è qualcos’altro. È una sorta di poema mortale, un viaggio malinconico e grandioso. E Visconti utilizza nella sequenza il leitmotiv del film, l’adagio della Quinta sinfonia di Mahler. La cosa strepitosa è che la musica non è mai ornamentale. Tra il personaggio – immobile sul traghetto, del quale vediamo solo il volto e la silhouette – Venezia, i canali, i palazzi e la Quinta sinfonia di Mahler un’integrazione sintetica si produce un effetto singolare che non appartiene a nessun’arte.

L’esempio più chiaro al riguardo è senz’altro La signora di Shanghai di Orson Welles. Perché qui avete la dark lady, ma avete anche il tema del riflesso, in una sequenza molto nota nella quale Rita Hayworth viene riflessa all’infinito in degli specchi, e questi specchi vengono spaccati uno dietro l’altro da spari di pistola, sicché, l’immagine femminile che è stata costruita viene, nel film stesso, ridotta in pezzi. Vale a dire che il film è la costruzione di un mito noir e al contempo la decostruzione di quella costruzione.

Ciò che è importante è sapere se il cinema porta con sé qualcosa di nuovo, che sia o meno un’arte. Credo che l’avvento del cinema abbia comportato un cambiamento gigantesco e che il cuore di questo grande cambiamento sia la capacità del cinema di creare nuove sintesi. Nuove sintesi nel tempo, nuove sintesi tra le arti, nuove sintesi con tutto ciò che non è arte, nuove sintesi nelle operazioni delle rappresentazioni morali.

…nei grandi capolavori c’è qualcosa di indicibile tra la continuità e la discontinuità. Una nuova immagine compare nel film: è assolutamente nuova, ma è il medesimo film, vale a dire che la continuità si fa con la discontinuità. O, se preferite, il cinema è una promessa che probabilmente non ha pari, la promessa che si può vivere nella discontinuità.

[Viaggio a Tokyo] Nel film di Ozu, il ritmo continuo è particolarmente lento. C’è una sorta di lentezza ritmata che rende ben visibile la temporalità propria degli anziani, una temporalità dilatata e al contempo veloce, troppo identica a se stessa

Questa immagine arriva come una sorta di luce, appunto perché non c’è quasi nulla, e questo quasi nulla è, in realtà, il sorgere di qualcosa di nuovo

C’era la rivoluzione e c’era il potere, che avrebbe conservato la rivoluzione, la rivoluzione permanente, il miracolo permanente. Ma le cose non sono andate così. Non c’è stato il miracolo permanente; e la rivoluzione ne ha risentito. L’amore è anch’esso un problema, il medesimo problema, in assoluto lo stesso problema: l’evento può durare? Può produrre una sintesi?

Parmenide dice: tieni lontano il tuo pensiero dalla via del non essere, rimani saldamente dal lato dell’essere. Non cercare una sintesi di essere e non essere. E ne Il sofista, Platone scrive: «Devo dire qualcosa contro Parmenide». È terribile, perché Platone considera Parmenide suo padre, e dice allora: «Ucciderò mio padre, commetterò un parricidio». In cosa consiste questo parricidio? Nel formulare una sintesi possibile tra essere e non-essere. Platone chiama questa sintesi il diverso. In modo tale che la filosofia diventa il pensiero del diverso. In fondo, quando diciamo che la filosofia è una sintesi, una sintesi entro la frattura, possiamo dirlo come Platone: la filosofia è il pensiero del diverso.

Cosa sapremmo oggi dell’Iran senza Kiarostami? La stessa cosa capita con il cinema asiatico. Hong Kong, Taiwan, Giappone; cosa sono altrimenti per noi Ozu, Kurosawa, Mizoguchi, Wong Kar Wai, e altri? È veramente molto importante. Il cinema ci consente di vedere il diverso nel mondo, ce lo mostra fin nel suo intimo, nel suo rapporto con lo spazio, nel suo rapporto con il mondo.

Potete ben immaginare come funziona: abbiamo la produzione di immagini-movimento e immagini-tempo da parte del cinema, abbiamo la produzione di concetti da parte della filosofia, e i concetti del cinema passeranno da una classificazione delle immagini. Cito l’inizio del testo di Deleuze sul cinema: «Questo studio […] è una tassonomia, un tentativo di classificazione delle immagini e dei segni». L’obiettivo è chiaro: una classificazione delle immagini e dei segni

  • III. FALSI MOVIMENTI, VISITAZIONE, PASSAGGIO, IMPURITÀ

 

  • IV. PENSIERO E CINEMA. IL PASSAGGIO E L’IMMOBILITÀ

Un primo modo di parlare di un film è quello di dire «mi è piaciuto» o «non mi ha entusiasmato». Questi enunciati sono indistinti, perché la regola del “gusto” occulta la sua norma. In relazione a quale aspettativa giunge il giudizio?

C’è un secondo modo di parlare di un film che consiste precisamente nel difenderlo dal giudizio indistinto, mostrando – la qual cosa presuppone già un qualche argomento – che tale film non si situa semplicemente nello spazio tra il piacere e l’oblio.

Uno dei segni superficiali di questo cambiamento di registro è che l’autore del film viene menzionato come autore. Mentre il giudizio indistinto menziona in primo luogo gli attori, o gli effetti, o una scena sorprendente, o la storia raccontata, questa seconda specie di giudizio cerca di designare una singolarità di cui l’autore è l’emblema.
Chiamiamo questo giudizio il giudizio diacritico.

C’è qualcuno che si azzarda a trovare significativo il fatto che l’Orestiade di Eschilo o La Commedia umana di Balzac vi siano “piaciuti molto”? che “francamente non sono male”? Il giudizio indistinto è perciò ridicolo. Ma del resto lo è anche il giudizio diacritico.

Diciamo che si passa dal giudizio normativo, indistinto (“è buono”), o diacritico (“è superiore”), ad un atteggiamento assiomatico, che domanda quali sono per il pensiero gli effetti di questo o quel film. Parliamo dunque di giudizio assiomatico.

  • V. SULLA SITUAZIONE ATTUALE DEL CINEMA

La tecnica godardiana del “suono sporco” (frasi inaudibili, sovrapposizioni sonore, rumori di fondo, ecc.) è un tentativo di depurazione formale di ciò che ha invaso la produzione corrente, vale a dire, l’ingarbugliamento costante della musica nella sua forma post-rock, dei suoni brutali (armi, esplosioni, auto e aerei, ecc.) e dei dialoghi portati ad un livello di inerzia operativa.

…L’uso dei piani sequenza ripresi dall’interno di automobili in Kiarostami, o anche in De Oliveira, lavora su uno stereotipo deprimente dell’immaginario contemporaneo, in cui due film su tre si aprono con questo tipo di inquadratura.

…L’attività sessuale, direttamente filmata nei corpi, è uno dei segni più evidenti di ciò che l’imagerie contemporanea è in grado di permettere oggi come oggi. Si oppone alla metonimia del desiderio, che è una delle chiavi dell’arte cinematografica classica, e che puntava ad evitare la censura attraverso la simbolizzazione sessuale dei più infimi dettagli.

Perlomeno in alcuni periodi di tempo, la dimensione di massa del cinema non è incompatibile con la preoccupazione diretta di inventare forme in cui il reale di un Paese si dà come problema. È ciò che è successo in Germania, sulla scorta dei movimenti di sinistra (Fassbinder, Schroeter, Wenders…), in Portogallo dopo la rivoluzione del 1975 (De Oliveira, Botelho…) e in Iran dopo la rivoluzione islamica (Kiarostami…).

Il XX secolo, che dopo tutto è il secolo del cinema, ha conosciuto essenzialmente tre tipi di musica. In primo luogo, la musica post-romantica, che ha mantenuto gli artifici della tonalità propri della melanconia sinfonica di Mahler o di Čajkovskij, e che ricorre fino ad oggi singolarmente nel cinema, attraverso Strauss o Rachmaninov. In secondo luogo, la grande creazione dei neri nordamericani, il jazz, che annovera artisti immensi, da Armstrong a Monk, al quale però occorre unire in blocco tutto quello che possiamo chiamare la “musica dei giovani”, dal rock alla techno. E, infine, la continuazione della frattura di quella vera creazione musicale che, da Schönberg a Brian Ferneyhough, ha liquidato la tonalità e ha costruito un universo di singolarità musicali, seriali e postseriali.

  • VI. DISFARE L’IMMAGINE. DELEUZE E IL CINEMA

La quarta questione riguarda la domanda su che cos’è il cinema. Voi sapete che Deleuze ha scritto Che cos’è la filosofia? Sul cinema ha scritto due libri di filosofia: L’immagine-movimento e L’immagine-tempo, e in nessuno di questo testi è dato trovare una definizione del cinema. Credo che la concezione che Deleuze ha del cinema sia misteriosa. Qual è il mistero? Il mistero risiede nella nozione di immagine e nel rapporto tra immagine e spazio-tempo.

PARTE SECONDA

  • VII. AL FONDO DELL’ESSERE. NOTE SU L’ULTIMO UOMO DI MURNAU

Murnau dà sempre l’impressione di aver inventato questo o quell’espediente che sappiamo invece essere di uso corrente nel cinema degli anni Venti. Così che, come Eschilo o Sofocle, c’è nella sua arte un classicismo superiore, qualcosa di aurorale, che trasforma il già-visto in un mai-visto.
Prendiamo tre di questi codici d’epoca: la considerazione del carattere di classe della società, i virtuosismi tecnici del muto, il gioco espressionista degli attori

  • VIII. LA CATTURA CINEMATOGRAFICA DEI SESSI: IDENTIFICAZIONE DI UNA DONNA

…così come non credo che leggere un testo (spiegarlo) equivalga ad enumerare le catacresi, gli asindeti, le metafore o le sineddoche, nemmeno credo che spiegare un film significhi localizzare in esso gli zoom, i carrelli indietro o i fuori campo. Falso formalismo dei Diafoirus e Trissotin del cinema. Ma nemmeno si tratta – è inutile dirlo – di raccontare la storia, di acclamare gli attori, di dire che ci si è divertiti moltissimo o di fare una riverenza. Il discorso giornalistico non apporta nessun rimedio a quello accademico.

Il fatto che una donna ami un uomo fa di quell’uomo l’identificatore di tale donna. Amare è un desiderio, pertanto un dovere, poiché desiderio e legge sono una cosa sola. Amare una donna determina per un uomo il dovere di identificarla. Sarà capace di sostenere tale desiderio, questo dovere?

…la tesi di Antonioni, filmicamente dimostrata, è che, in qualsiasi caso, la sessualità non dissipa mai l’enigma del sessuale.
La questione è sapere se questa tesi si riferisce al cinema o al reale. Ricordiamo che il protagonista è un cineasta che cerca una figura di donna per il suo film. Bisogna dunque intendere che l’identificazione di una donna, nel cinema, non può procedere per mezzo dell’esibizione dell’atto sessuale, per quanto raffinata essa sia? O che ciò di cui il cinema può attestare è che l’atto sessuale non contribuisce mai all’identificazione di una donna? Il film di Antonioni è ben attento a lasciare questo punto in uno stato indecidibile

  • IX. LA FINE DI UN INIZIO. TOUT VA BIEN

…dopo i lunghi anni sperimentali, successivi al ‘68, dove Godard subordina interamente la fabbricazione collettiva delle immagini agli scopi della militanza. Ritorno al cinema, perché è un film, un “vero film”, con dei divi (Montand e Fonda), un soggetto, uno sviluppo… Può anche essere una chance offerta a Gorin, compagno degli anni rossi, degli anni duri, di impegnarsi con il “vero” cinema. Ma è un ritorno interamente condizionato da una materia particolarmente resistente alla finzione filmica: l’attualità pulsante, la situazione in movimento del Paese

Il film crea un palcoscenico dove mostrare le due parti di questa definizione. Anzitutto, si tratta di episodi tipici della lotta di classe, il cuore del film racconta in modo stilizzato uno sciopero con occupazione e sequestro del padrone in una fabbrica dell’industria alimentare (l’episodio è ispirato da diverse azioni della sinistra extraparlamentare in una sordida fabbrica della banlieu parigina dove si confezionava il prosciutto Olida). La fine del film mostra un intervento violento di un gruppo di militanti (maoisti ovviamente) in un supermarket di provincia, che insegnano (obbligano?) ai clienti ad oltrepassare le casse senza pagare.

7. Poiché al fondo di tutto c’è la contraddizione, la dialettica, il film si struttura sistematicamente secondo delle grandi figure simmetriche (lo sciopero e il lavoro, l’ufficio del padrone e il sequestro, la fabbrica e le immagini di una pubblicità per i collant Dim…). Resta inteso che la contraddizione più viva, la contraddizione reale per Godard/Gorin, è quella che concerne l’avvenire del cinema, il destino di un cineasta: vendersi al mercato (qui simbolizzato dal dimenarsi giallo e blu delle ballerine volteggianti della Dim), o servire il popolo (affermare lo sciopero). Di questo «oppure…oppure», ancora in un certo senso rozzo in Crepa padrone, tutto va bene, e di cui l’ultimo avatar sarà Passion, Godard non ne uscirà, lo sappiamo, se non rigirando, ripiegando (repliant) poco a poco il cinema su se stesso, facendo di una tale piega una meditazione sul potere e l’impotenza dell’immagine

X. SU HISTOIRE(S) DU CINÉMA DI JEAN-LUC GODARD

Questo film è una meditazione sul suo stesso titolo: Histoire(s) du cinéma. Storia è al plurale, ma la “s” che marca il plurale è messa tra parentesi, per cui si può dedurre che il film si situa tra una storia e le storie. In fondo, è una riflessione sulla storia, e al tempo stesso sulle storie.
Possiamo dire allora che il film parla del suo titolo, ossia della storia, del cinema e della storia del cinema. Tutti e tre. Prima di tutto la storia: il film si chiede che cosa sia la storia, come raccontarla e, in particolare, qual è la storia del XX secolo. È un film sul XX secolo. Poi il cinema: si domanda anche cosa sia il cinema e, forse più particolarmente, qual è la posizione del cinema tra le altre arti nel XX secolo

Nei film di Godard, la musica svolge una funzione molto particolare, quella di indicare il momento in cui il film si eleva, il momento in cui cambia l’intensità. Da questo punto di vista, ha una funzione quasi sacra, che si percepisce anche in questa opera.

per Godard un’immagine isolata non ha senso, o, per dirlo più precisamente, che un’immagine autosufficiente è un’immagine senza interesse. Un’immagine è sempre una relazione con una moltitudine di immagini, proprio perché una vera immagine tende all’invisibile per la sua relazione con tutte le altre immagini.

…vorrei paragonare Godard a Hegel. Perché questo paragone? Perché Hegel voleva essere il filosofo della filosofia, vale a dire il filosofo di tutta la storia della filosofia. L’ambizione di Hegel era che la sua filosofia fosse una filosofia della filosofia, una filosofia di tutte le filosofie, così come il film di Godard è il cinema del cinema, il cinema di tutti i cinema. Ora, qual è la condizione? Per Hegel era molto chiara: se si può scrivere la filosofia delle filosofie è perché la storia è giunta alla fine. Colui che scrive la filosofia delle filosofie è l’ultimo filosofo.
Forse Godard si rappresenta come l’ultimo cineasta? Dice che la storia del cinema è giunta alla sua fine? In un certo senso si, al di là di tutto. Si sente in questo film una visione finale, qualcosa che arriva alla sua fine, e un potente elemento nostalgico

…quello che Godard chiama la fine del cinema è forse la fine di una certa luce dell’immagine che, d’altra parte, egli attribuisce di frequente alla televisione.


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